//di Francesco Cataldo Verrina//
Giovedì 14 luglio 2022, il Charles Lloyd Quartet Feat. Bill Frisell incanta un Morlacchi sold-out, siglando quello che, a mio avviso resta, per il momento più convincente dell’attuale edizione di Umbria Jazz. Charles Lloyd è una leggenda vivente. Nell’arco di quasi sessant’anni, è stato un personaggio eclettico, mutevole ed incostante, ma oggi dall’altro dei suoi ottantaquattro anni riesce ad osservare il mondo del jazz contemporaneo da una posizione privilegiata. Tutto si può dire di Lloyd tranne che non abbia uno stile inconfondibile, identificabile fin dalle prime note. Il fiato non è più quello di una volta, ma la magia sonora del suo strumento ammalia diffondendosi nell’aria come una stella cometa che lascia una lunga scia, che risucchia l’ascoltatore in un vortice di emozioni.
Charles Lloyd contempla appieno il suggestivo concetto di PAT, spesso associato alla musica jazz, ossia il Principio Audio Tattile. La musica del vecchio sassofonista è cosi caratterizzata nel colore, nel timbro, nell’accento e nel fraseggio, che diventa unica ed al contempo fisica e tangibile, sicuramente trascrivibile, ma nessun altro potrebbe suonarla come lui.
Non appena i quattro musicisti prendono posizione sullo stage, il fascino magnetico del sax di Lloyd inizia a sedurre gli astanti: un breve applauso e poi un religioso silenzio. Il flusso sonoro è quasi liturgico e contempla una regola d’ingaggio chiara ma scolpita nella roccia: il sax introduce il trema, lo sviluppa, mentre gli uomini della retroguardia ritmica, Reuben Rogers al contrabbasso e Kendrick Scott alla batteria, completamente votati alla causa del band-leader, si concedono un lungo assolo per consentire a Lloyd di riprendere fiato, mentre compare anche l’ospite speciale. Bill Frisell, come da copione, è defilato e non cerca di primeggiare, resta quasi in disparte, ma la sua chitarra dal sangue blues diffonde un suono spettacolare, morbido, vibrante, lungo, adamantino, quasi resofonico. Stile, esperienza e disciplina fanno di Frisell un alleato sicuro anche negli anfratti più impervi della partitura. Le composizioni di Lloyd non sono prevedibili, evidenziando cambi di passo e di umore improvvisi, sono piccole odissee sonore dilatate che spaziano in direzione dei quattro punti cardinali della musica.
Nei primi trenta minuti lo schema non cambia, ma il convoglio viaggia in ogni dove, facendo sentire il profumo delle musiche del mondo e l’aspro sapore delle terre del Sud, del Tex-Mex e del Mid-West che, spesso, riempie di suggestioni il costrutto sonoro del sassofonista. Ad un certo punto si apre una finestra per Frisell, che diventa una vetrina da arbiter elegantiae: la chitarra introduce e sviluppa il tema, fino a quando il sassofonista non riconquista il centro della scena, ma dopo aver concesso generosamente lungo spazio ai sodali.
Il pubblico gradisce, applaude ma è come ipnotizzato, specie quando Lloyd, come un incantatore di serpenti, imbraccia il flauto, sviluppando una piacevole atmosfera etno-fusion, che fa subito pensare all’Africa. Il viaggio continua e le emozioni non si esauriscono facilmente. Lloyd e compagni sono una continua sorpresa. Sembrerebbe, come suggeriva Enzo Capua durante la presentazione, che il sassofonista migliori di anno in anno. Si arriva al finale, ma la platea reclama il bis che diventa un piccolo happening con Lloyd che crea una scanzonata situazione rollinsiana, ma non usa il calypso, preferisce fare ricorso al ritmi ispanico-messicani da tempo depositati nel suo DNA sonoro. Finalmente, il Teatro Morlacchi torma a vivere un’aura di grandeur, di prestigio e di vero primato riconosciuto a livello mondiale.