20 dischi jazz in breve, tra i quasi quattrocento trattati in «Jazz, Uomini & Dischi, dal Bop al Free»
(Clifford Brown / Max Roach – «Clifford Brown & Max Roach», EmArcy 1955)
Clifford Brown emerse come un indiscusso precursore di quel jazz in costante evoluzione, mentre il quintetto stabilì delle linee programmatiche nell’ambito dell’improvvisazione, raramente superate, ma spesso punto di riferimento molti altri artisti venuti dopo. Fra i 100 dischi jazz più rappresentativi di ogni epoca.
(Kenny Dorham – «Afro-Cuban», Blue Note 1955)
In questo che viene da molti considerato come il suo lavoro migliore, il trombettista scioglie a fuoco rapido la brillantezza del bebop, e come in una colata metallica, colora di lucentezza i ritmi della parte centro-meridionale del continente americano con piglio sanguigno, quasi come sospinto ed illuminato da fervore messianico.
(Frank Rosolino – «I Play Trombone», Bethlehem Records 1956)
Un forte senso di liricità trabocca da ogni microsolco; tutti i passaggi sono ben ponderati ed il feeling fra i musicisti crea un collante perfetto per tutto l’insieme; il costrutto sonoro risulta omogeneo e ben delineato. Rosolino sprigiona tutta la sua componente swing in rapida scioltezza, creando un’intrigante atmosfera cool con un movimento flessuoso e spaziato.
(John Coltrane – «Lush Life», Prestige 1957)
Indipendentemente dalla sua natura casuale e poco concettuale, «Lush Life» include una serie di momenti interessanti ed emozionanti. L’album risulta piuttosto energico e cattura al foto-finish le gesta di un abile improvvisatore tecnicamente in crescita, il quale iniziava a muoversi verso altre direzioni.
(Sonny Rollins – «Freedom Suite», Prestige 1958)
Un concept a sé stante e fortemente innovativo. Il significato va colto proprio nella sua interezza, in un «canto» di rabbia, amore e libertà, ininterrotto e fatto di sofferenza e di gioia al contempo; un messaggio chiaro che sgorga dal piacere di suonare, ma che sprofonda nel disagio sociale e nell’evidente disapprovazione per la condizione dei neri.
(Charles Mingus» – «Presents Charles Mingus», Candid Records 1960)
L’insolita atmosfera spinse tutti i sodali oltre le Colonne d’Ercole della consueta e normale cifra stilistica. Mingus trasportò i suoi complici oltre la barriera del suono ed il perimetro di una partitura scritta, alterando il suo canone tradizionale ed abolendo ogni limitazione, al punto da far salire il livello d’intensità musicale ed espositiva in maniera parossistica.
(Dizzy Gillespie And His Orchestra – «Gillespiana», Verve 1960)
L’ensemble sviluppò una musica estremamente coinvolgente e sostenuta con una varietà di tempi e ritmi da manuale, mentre le parti più morbide sembrano frammenti dal sapore cinematografico; non è bop standard o vecchio jazz orchestrale, ma una specie di bop-cool, arricchito da un’ottima progressione ritmica e da un crescendo melodico al limite del sinfonico.
(Nat Adderley – «Work Song», Riverside 1960)
Una tempesta perfetta di suoni, dove tutti gli strumentisti coinvolti trovano collegialità di intenti che riesce ad elevare il set al di sopra della media. Un album solido che scivola con estrema fluidità sul piano inclinato di un bop a tinte cangianti, con qualche punta hard, diluito da un mix di sangue soul-blues del gruppo R&B positivo.
(Max Roach «We Insist! Freedom Now Suite», Candid Records 1960)
Quel sapore di tormento e sofferenza che reclamava un’urgenza di cambiamento, unendo storia ed innovazione musicale. Un lavoro fondamentale all’interno della variegata discografia di Max Roach ed un punto fermo nell’evoluzione sonora della musica afro-americana legata all’impegno e alla lotta sociale.
(Ornette Coleman – «This Is Our Music», Atlantic Records 1960)
Ornette schizza completamente fuori dalle orbite della tradizione, sconfinando in quel futuro caotico e sublime, al contempo, che lui stesso stava forgiando. Tutto il resto dell’album costituisce la mappa ben tracciata, il preambolo a «Free Jazz». Melodia, armonia, ritmo e tempo diventano come un quadro surrealistico dal corpo elastico e cangiante.
(Donald Byrd – «Royal Flush», Blue Note 1961)
Dietro le luminose linee di tromba di Byrd, Hancock suona accordi delicati, mentre la sezione ritmica si muove con passo felpato. In termini di struttura è un archetipico di hard bop dei primi anni ’60, nonché una sintesi di blues con inflessioni soul dove Higgins e Warren distillano un groove swingante.
(Steve Lacy with Don Cherry – «Evidence», New Jazz Records 1962)
Nonostante il tentativo di fare un album trasversale, i brani di Monk mantengono tutti gli aspetti logici e formali. «Evidence» in particolare, gioca molto sull’attimo fuggente e sull’improvvisazione, come se le note da suonare venissero scelte al momento. Gli assoli di Don Cherry e Steve Lacy sembrerebbero sfuggire alla regolarità, quasi che l’uno volesse liberarsi dal controllo dell’altro.
(Art Blakey And The Jazz Messengers – «Caravan», Riverside 1963)
L’assolo di batteria nel brano iniziale espone immediatamente la tempra e la capacità con cui Blakey sapeva far coesistere una assoluta precisione con una debordante energia. «Caravan» smantella l’arrangiamento originale di Duke Ellington e lo ricostruisce attraverso un’estesa e ardente interpretazione.
(Don Byas – «Anthropology», Black Lion Records 1963)
In quel periodo Byas aveva cambiato stile, accrescendo la durezza del suo tono, alla ricerca di un suono più forte ed energico in grado di riflettere il jazz di quegli ultimi anni. Momenti di durezza con evidenti linee improvvisative intervallati da ballate reinterpretate con l’uso di nuovi moduli espressivi.
(Woody Shaw – «Cassandranite», Muse Records 1965)
Un coriaceo hard bop molto avant-garde, un suono denso e corposo, particolarmente interessante dal punto di vista storico per l’evoluzione del jazz moderno. Shaw e Henderson si esaltano nelle loro avanzate, disegnando figure armoniche inaspettate, segnate da piacevoli ed accattivanti colpi di scena melodici. L’intesa fra i due è perfetta.
(Albert Ayler Trio – «Spiritual Unity», 1965)
Un album tracimante nella sua abbondanza di energia sonora, pura, sacra e seminale; una sorta di flusso di coscienza meditativa. Murray stabilisce un impulso libero in cima al quale ballano il basso fluttuante di Peacock e l’urlo di Ayler che, a tratti invasato dal demone del ritmo. libera l’anima a con un approccio audace e indomabile,
(Cecil Taylor – «Unit Structures», Blue Note 1966)
Il risultato è un jazz abrasivo che riflette un forte senso di interazione ed un coacervo di combinazioni sonore molteplici. Si potrebbe affermare che nulla in quel periodo potesse essere omologato all’architettura musicale di questo album, non esisteva ancora niente di paragonabile all’intensa voracità creativa di Cecil Taylor.
(Charlie Haden – «Liberation Music Orchestra», Impulse! 1969)
Una sorta di opus magnum, un’opera analizzata e studiata per gli arrangiamenti, le sue evidenti caratteristiche di unicità compositiva ed esecutiva, nonché da molti considerata come una delle pietre miliari della storia del jazz d’avanguardia. Frutto di una genialità debordante, il cui atto rivoluzionario non nasce nella destrutturazione della sintassi sonora,
(Miles Davis – «In A Silent Way», Columbia 1969)
Un humus creativo assai propedeutico alla svolta del band-leader, che espose le sue idee dando brevi indicazioni, attraverso un gioco di squadra perfettamente sincrono ed un una sorta di perpetuo byplay, a completare la struttura dell’album che si materializzò come un arazzo basato su un magnifico intreccio di fili e collegamenti sonori.
(Archie Shepp – «Attica Blues», 1972)
Un album inclusivo che mette in luce il forte legame tra soul, jazz avant-garde, un funk tagliente e rabbioso ed orchestrazioni ampollose alla Duke Ellington, ma riottose e dissonanti, Un capolavoro di eclettismo confluente, dove tanti punti di partenza apparentemente lontani sfociano in un unico torrente musicale pieno di rabbia e di energia.