// di Bounty Miller //
Robin Kenyatta, ottimo sassofonista contralto e compositore dalla penna fluida, è stato forse uno dei musicisti più incompresi degli anni ’70, epoca di forti contraddizioni e contaminazioni sonore, di contrasti e di mostruose mutazioni. Kenyatta, il cui vero nome era Robert Prince Haynes, amava giocare sulla mescolanza, si potrebbe parlare di una sorta di fusion multicolor che in alcuni album adagiava il jazz su un substrato sonoro caraibico, tra reggae e calypso.
L’ album del 1974 “Stompin’ at the Savoy”, è un piccolo gioiello, forse sfuggito al controllo dei radar, un lavoro imponente per quantità e qualità di idee travasate fra i solchi e per il dispiegamento di forze. Un perfetto amalgama di jazz tradizionale, funk, soul ed ariose melodie a volte al limite del pop e dello smooth. Prodotto da Michael Cuscuna per la Atlantic Records, si avvale di una nutrita schiera di musicisti suddivisi in vari gruppi nei singoli brani: Billy Harper, Dr. John, Ron Carter, Chuck Rainey, Lew Soloff, Alphonse Mouzon, Ralph MacDonald, Jimmy Knepper, Bernard Purdie, Sonelius Smith, Larry Willis, Walter Booker, Lewis Worrell, e altri.
La title-track, che si muove sulla linea di un funk assai arieggiato, con aperture alla disco-music ed a certe orchestrazioni del Philly-Sound, è arrangiata per dare spazio anche ad un coro femminile, percussioni insistenti, una sezione fiati di quattro elementi, basso elettrico e piano Rhodes. “Smooth Sailing” è un gemma insanguata di R&B e prelevata dal forziere di Arnett Cobb che tocca subito il lato emotivo, sia pur governata da un “walking” di basso elettrico, chitarre e congas, e giustapposta su un groove facile ed accattivante.
“The Need to Smile”, dal fascino arcano, è una jam di dieci minuti dove il Rhodes di Willis, il piano acustico di Smith, e Kenyatta al soprano sviluppano una sorta di ballata mid-range mentre le note scivolano sul contrabbasso di Ron Carter, le percussioni di Guilherme Franco e la batteria di Mouzon fino a metà tragitto, quando le porte si spalancano ad una trascinante progressione post-bop.
“Mellow in the Park” è breve ma intensa ed il flauto di Kenytta fa gli onori di casa. Le vere sorprese scaturiscono dall’empatica rilettura di due successi pop: una versione finto-reggae di “Neither One of Us”, già lanciata da Gladys Knight, ed una bizzarra revisione di un successo degli Allman Brothers, “Jessica” riproposta com un andamento afro-cubano, eleborato dal piano Rhodes di Dwight Brewster con il sostegno dal basso funkified di Rainey e dai breakbeat di Winston Grennan.
“Stompin’ at the Savoy” si chiude con una versione afro-jazz-reggae di “River Boat” di Allen Toussaint. Robin Kenyatta, che in alcune circostanze aveva avuto momenti di eccellenza anche in ambito free-jazz, qui non disdegna di mettere il suo sax alto al servizio di inaspettate contorsioni sonore, facendo ricorso a tutte le innovazioni apportate anche al jazz dalla musica di quegli anni, una sorta di jamming culturale e di scienza del breakbeat che in questo set sembra funzionare alla perfezione.