Per questa nuovo lavoro di Francesco Cataldo Verrina, si potrebbe rispolverare un vecchio claim pubblicitario: «Prima non c’era, adesso c’è». In realtà, prima della pubblicazione di «Art Pepper: Sul filo dell’alta tensione» non esisteva alcun libro in italiano dedicato al contraltista di Gardena che l’autore nella quarta di copertina descrive in maniera alquanto suggestiva: «Art Pepper è stato il poeta maudit del sax contralto: un’esistenza sfregiata dagli eccessi, che si riflette nel pathos della sua musica e nell’eterno conflitto tra l’essere ed il malessere, che appare come l’unico atto definitivo di una vita incompiuta; Pepper non suona ma distilla sangue jazz, divenendo un donatore universale, dove la rabbia e la frustrazione diventano leggerezza, mentre le vibrazioni si infittiscono in un caleidoscopio cromatico di colori alterati da un’intensa luce che proviene dall’anima. Tra chiaroscuri, ombre, penombre, amori, tensioni, detenzioni, pene, passioni e pressioni, Pepper s’invola, s’inabissa, corre con il fiato sospeso aumentando la velocità del tempo e del battito del cuore del jazz e degli uomini. Poi si acquieta tentando di sfuggire ai demoni del parkerismo, li esorcizza, li domina, li scaccia e riemerge come da un lavacro sonoro purificante. Quindi riscende, agognando il registro più basso ma la sua narrazione ha un alto valore emotivo, tutto il resto è contorno, disadorno, resta sospeso sempre intorno nell’attesa del suo ritorno. Il sax è contralto, è contrario alle regole fisse e fissate da piccoli burocrati del pentagramma; è il contrasto a quella esistenza illusoria, stupefacente ed ingannevole che non trova le giuste simmetrie sotto forma di vita reale, ma che da vita al jazz sotto forma d’intensità».
Il libro narra la tormentata esistenza di Art Pepper attraverso la sua discografia. I dischi diventano i capitoli del racconto di una vita difficile ed avventurosa e, per il fruitore medio, musicalmente seducente. La vita di Art Pepper non è stata una novella da libro «Cuore», tanto da ingraziarsi i bacchettoni ed i bigotti, ma taluni pregiudizi non sono ancora del tutto superati, tanto che la spasmodica ricerca di dettagli sulla vita privata ha finito per surclassare l’interesse verso i sui dischi, facendone passare in secondo piano le trascendenti doti strumentali. Il Verrina espone il suo punto di vista, prendendo le distanze da una certa critica, sempre a caccia di gossip: «Le analisi su Art Pepper, le valutazioni sull’importanza del suo sassofono nell’ambito del jazz moderno e la storia di musicista sono state spesso trattate a grandi linee, come se l’inquietudine e la fragilità dell’uomo avessero in parte sminuito il contenuto delle sue performance. Nel mio libro non mancano l’aneddotica, elementi biografici ed i fattori ambientali, ma ho preferito, come è nel mio stile, privilegiare la musica e l’analisi dei dischi più importanti del sassofonista».
Nella West Coast musicalmente nera, pur essendo autodidatta, Art venne subito notato per il timbro morbido e soave, il cui suono risultava riconoscibile sin dalle prime note, ed introdotto in ambienti dove non era difficile imbattersi in gente come Coleman Hawkins, Benny Carter, Roy Eldridge o Louis Armstrong. Il fatto di essre cresciuto soprattutto in mezzo agli Afro-Americani aveva generato in lui una un conflitto interiore mai sopito, ossia l’essere un musicista bianco in rapporto ai neri ed essre accettato a pieno titolo dalla comunità jazz di colore. La negoziazione operata da Pepper tra whiteness e blackness diventerà l’elemento drammatico di un confronto che, per paradosso, mirava ad autenticare la sue performance in relazione a ciò che lui stesso percepiva essere una forma d’arte indubbiamente nera, o comunque black in maniera preponderante. Oltremodo Pepper percepiva il jazzista europeo come rappresentazione idiosincratica della whiteness, doppiamente lontano dalla razza e dalla nazionalità delle autentiche radici del jazz. Le parole del contraltista sono alquanto eloquenti: «Non volevo stare con i bianchi perché non avevo niente in comune con loro. Volevo sballarmi, dimenarmi, agitarmi e suonare il mio sax, e mi piaceva il modo in cui i neri suonavano». Su questo modo di agitarsi, di muoversi, di gesticolare e di parlare, si basa anche una delle fissazioni di Art Pepper, il quale ad un certo punto dirà che ai tempi delle jam session sulla Central Avenue, quando rientrava a casa, si metteva davanti allo specchio e cercava di imitare il modo di atteggiarsi e perfino il vernacolo dei colleghi di colore.
«Art Pepper: Sul filo dell’alta tensione» è un libro che sfata molti luoghi comuni sulla figura dell’altoista californiano. Pepper è stato uno dei personaggi più acclamati dal popolo del jazz, ma i libri di storia non gli hanno mai dato la giusta importanza. I motivi sarebbero molteplici, ma tanto è dovuto alla sua vita dissoluta, vissuta ad alta velocità, e ad una carriera incostante ed a macchia di leopardo, quale conseguenza degli eccessi. Insomma, genio e sregolatezza, ma è difficile trovare all’interno di una lunghissima discografia, che si estende fino al 1982, qualcosa di poco interessante, quanto meno, di poco coinvolgente. L’ultima parte della carriera di Pepper fu caratterizzata da un’incessante attività dal vivo, tanto che parecchio materiale, registrato durante una sfiancante attività concertistica in lungo ed in largo per il mondo, finì per costituire una parte cospicua della sua discografia. In quell’ultimo frammento di vita, il contraltista fu completamente gestito dalla moglie, la quale stabiliva i tempi, i luoghi ed i modi delle sue esibizioni e relative pubblicazioni.