Si potrebbe ragionare sul concetto di «jazz nel mondo», di «mondo del jazz», oppure seguire l’indicatore di marcia proposto da Guido Michelone nel suo ultimo libro, ossia «IL JAZZ E I MONDI». In ogni caso, tutto ciò è finalizzato a sottolineare l’ecumenismo del jazz che, come tutte le espressioni musicali segnate da una «dominante» afro-americana, offre molteplici variabili espressive. Quello proposto da Guido Micheloni, studioso attento ed analitico, è un viaggio low-cost comprensivo di bagaglio a mano (contenente una certa quantità di dischi) fra i quattro continenti della musica, dove nel corso dell’ultimo secolo si sono sviluppate delle forme «indigene» di jazz, legate spesso agli usi e costumi locali ed adattate al vernacolo sonoro del luogo.
«IL JAZZ E I MONDI» ha un sottotitolo alquanto esplicativo che non lascia spazio ad equivoci: «Musiche, Nazioni, Dischi in America, Africa, Asia, Oceania». Il lettore attento si rende conto che nell’occhiello manca l’Europa. In verità vengono analizzate anche talune varianti di jazz europeo e di jazz appartenente al continente Sud Americano. Non v’è dubbio alcuno sul fatto che il jazz sia l’unica forma di arte sonora capace di allignare nei terreni e nelle lande più desolate del Pianeta. Il jazz nasce da una mescolanza di generi e stili, alcuni dominanti altri recessivi, ma è geneticamente un melting-pot di razze e linguaggi, divenendo progressivamente nel corso dei decenni non tanto una forma musicale stantia e codificata, ma piuttosto una formula permeabile a contaminazioni di vario genere ed adattabile, pur mantenendo quasi sempre talune delle caratteristiche basilari. In realtà il segreto della sua duttilità consiste proprio in quelle scale di blues e nel suo ritmo swing, quasi mai vincolanti, dove il sistema armonico si adatta perfettamente a forme scalari di tipo autoctono, spesso dissonanti ed irregolari, o ad esotiche progressioni ritmiche che si integrano perfettamente nel costrutto originario.
«IL JAZZ E I MONDI» di Guido Michelone diventa così una specie di guida turistica suddivisa in più sessioni per un viaggio «avventuroso» sulle strade del jazz che portano in ogni direzione, aprendo la mente del «viaggiatore» ad inediti scenari sonori. Una costante scoperta di nuovi mondi in cui approdare e con cui confrontarsi. Oltre alle coordinate geografiche e alla geo-localizzazione delle varie forme autoctone di jazz, nonché l’enucleazione delle caratteristiche assunte da tale musica in quei luoghi, sono indicati una serie di dischi che ne sintetizzano le peculiarità e gli elementi di diversità rispetto al tradizionale vernacolo statunitense. Spesso l’autore, a sostegno delle proprie tesi, cerca la complicità di molti esperti di jazz, non tanto attraverso il citazionismo, ma piuttosto stabilendo con essi un dialogo virtuale inter pares, al fine di rendere l’indagine più fluida e diretta. Le note di presentazione del libro dicono: «Oltre i numerosi incontri lungo lo Stivale con jazzisti da ogni continente (il saggio) tratteggia una serie di ministorie del jazz in Mondi sia familiari sia insospettabili, ma che, proprio per la loro natura plateale e arcinota o, al contrario, misteriosa e appartata, riserveranno a tutti grandi sorprese».
Forse c’è ancora una storia tutta da scrivere, soprattutto se si osservano i cambiamenti da differenti angolazioni. Il jazz non è una musica impositiva, ma propositiva, non avendo regole rigide. Così, a tutt’oggi, alcuni fenomeni sono sempre in divenire ed il mutante genetico non smette mai di sorprendere. Il saggio di Michelone, nonostante le sue 390 pagine, è agile e di facile consultazione, soprattutto apre nuovi itinerari alla riflessione ed, in fondo, ci fa capire che se si parla di questa musica, nell’accezione più larga del termine, ancora dopo più di un secolo, tutto ciò va ricercato non tanto «nel mondo del jazz e dei jazzisti», spesso un’enclave da confini presidiati, ma nella sua naturale predisposizione al cambiamento e alle sue doti di adattabilità agli uomini di ogni razza e colore, ossia a tanti mondi possibili.