Un musicista di grande caratura, il quale, in circa sessant’anni di attività, ha avuto soprattutto il merito di gettare un ponte tra Oriente ed Occidente, tra Sud e Nord del mondo, usando tutti quegli stilemi sonori che per motivi genetici appartengono alla “Grande Madre Africa”: jazz, soul, reggae, funk ed il tradizionale makossa, fondendoli a caldo in un perfetto melting-pot musicale. Ma cerchiamo d’inquadrare il personaggio per sommi capi. Agli inizi degli anni ’70, negli USA cominciarono a nascere come funghi i moderni locali da ballo, molti scantinati o loft, prima adibiti a feste private, si trasformano in discoteche, dove il DJ cominciava ad essere l’unico sacerdote di un rito che faceva sempre più proseliti. Inizialmente, i disc-jockeys non avevano un vero repertorio “disco” cui attingere, soprattutto il mercato del vinile non si era ancora orientato in tal senso.
Oltre a brani di derivazione soul e rock, essi cominciarono a proporre qualche disco d’importazione, soprattutto afro-music. Al contrario le radio erano ancora reticenti nel proporre un certo tipo si sonorità. Se si escludono alcune rare stazioni radiofoniche come la WBLS di New York, possiamo dire che questi pezzi non venivano trasmessi in nessun programma. Nell’estate del ’73, però, uno di questi “imports” abbatté la barriera che precludeva l’accesso alle onde AM. “Soul Makossa” di Manu Dibango, nella sua “import-label”, divenne un brano estremamente popolare nelle discoteche. Non appena le richieste del disco aumentarono, l’Atlantic Records si impossessò di tutti i diritti di “Soul Makossa”, che cominciò così a cavalcare con quotidiana frequenza le onde radiofoniche nell’etere americano. Il brano era caratterizzato da un trascinante sax, suonato su ritmi jungle, qualche stoppatina pre-funk e canto africano con cadenza francofona, che al paragone faceva sembrare “rilassanti” molti prodotti autoctoni destinati alle discoteche.
Per questo e per altro ancora, Manu Dibango entra di diritto nella storia della “disco”, o, comunque, della musica da ballo di tutti i tempi. Leggendario musicista africano, punto di riferimento della black music mondiale, dotato di uno straordinario ed innato talento musicale, Manu Dibango, nel 1994, è stato definito dal magazine americano Blue Music il “Miles Davis della “world music”. Di tutti gli artisti africani è stato sicuramente il più eccentrico ed eclettico con i suoi sassofoni dai colori improbabili, gli eterni occhiali neri, la sua risata profonda e contagiosa. “Manu” è stato un miracolo di libertà espressiva, di ricerca e sperimentazione costante, di rigore professionale rinnovato e rinvigorito costantemente dalla gioia di suonare e vivere insieme al suo pubblico.
Responsabile della diffusione mondiale della “makossa”, Emmanuel “Manu” Dibango, nato a Douala, Camerun 12 dicembre 1933, è conosciuto dalla moltitudine come sassofonista jazz, compositore, cantante, pianista e arrangiatore. Trasferitosi quindicenne in Belgio, entra in contatto con il jazz tradizionale dei club di Bruxelles. Tra il 1960 e il 1965 suona con gli African Jazz, ensamble dello Zaire guidato da Joseph Kabasele. Dopo tre lavori iniziali di matrice jazz e R&B, con la pubblicazione del quarto album “Soul Makossa”, nel 1973, -come già accennato – diviene improvvisamente molto popolare, consentendo alla makossa (una sorta di disco-soul urbana nata in Camerun negli anni ’50) di essere apprezzata in tutto il mondo. L’album diventa disco d’oro negli USA e guadagna una nomination ai Grammy. Sull’onda del successo,
Dibango, che si divide tra Francia, Belgio e Camerun, realizza qualche altro singolo fortunato, come “Big Slow” e “Sun Explosion”, pubblicando album come “Makossa Man”, “Makossa Music” che sfruttano la popolarita del genere. Contestualmente collabora con musicisti quali Fela Kuti, Don Cherry, Johnny Pacheco, Fania All-Stars. Negli anni ’80 la sua proposta si allarga al reggae, con “Gone Clear” e “Ambassador” (nei quali si affianca a Sly and Robbie), e, più tardi, a una sorta di dance-music futuristica, sperimentata in “Electric Africa” assieme a Bill Laswell. Nel frattempo è attivo anche come direttore d’orchestra, proprietario di club e fondatore di uno dei primi giornali africani di musica. All’inizio degli anni ’80, intenta e vince una causa contro Michael Jackson per l’uso di settantasette secondi di “Soul Makossa” in “Wanna Be Starting Something” contenuta in “Thriller”. Una nuova versione del brano, prodotta da Laswell, appare in “Afrijazz” del 1987.
Fra gli ultimi album più riusciti si segnala principalmente “Live ‘91”, efficace compendio delle diverse passioni musicali del sassofonista. Per chi volesse avvicinarsi al personaggio, si consiglia “Bao Bao” un’antologia di brani risalenti alla collaborazione del 1984 con Bill Laswell, Herbie Hancock, Bernie Worrel e Wally Badarou ed “African Soul”, disco che raccoglie il meglio della produzione di Manu Dibango, compresa la celebre ” Soul Makossa”. Tra gli imperdibili, a parte il già citato “Afrijazz” del 1987, si suggerisce anche l’album “Gone Clear” del 1980, un perfetta mistura di sonorità che spazia tra soul, jazz, reggae, funk e makossa