// di Francesco Cataldo Verrina //
La nebbia, per paradosso, può diventare un indicatore di marcia ben preciso, se usata come metafora nell’art work della copertina di un album jazz. Nella vita di Justin Salisbury, pianista di talento, la nebbia è un fatto reale e si lega alle sue origini, quindi reca con sé tutto un corredo di ricordi, emozioni suggestioni e nostalgie. La nebbia, però, è cinema, letteratura, poesia sfumata, mistero fitto, paura di un impalpabile altrove che potrebbe rappresentare l’incertezza posta sul capo del futuro dell’umanità come un spada di Damocle. La nebbia è un’induzione a superare le remore e ad andare avanti, voglia di esplorare e di sfidare l’ignoto.
Justin Salisbury è nato in un paesino dell’Oregon, Clatskanie, completamente circondato da foreste, montagne e praterie, spesso, ammantate di nebbia: la foto riportata in copertina è quella di un uomo, suo padre, che cammina in uno scenario nebbioso, quasi surreale. La nebbia è acqua, sentimento liquido vaporizzato nell’aria, disperso tra gli uomini e le cose, le case e gli alberi. La nebbia è velo diafano che avvolge il paesaggio e lo rende impercettibile, come la musica, «arte invisibile», così definita da Duke Ellington. «Evergreen» di Justin Salisbury, edito dalla GleAM Records, è nebbia che si dirada lentamente in una ridda di vibrazioni positive coibentate da emozioni a presa rapida e confezionate una per una da un sinergico piano trio come cremose caramelle bitter-sweet in un soddisfacente package deal. Justin Salisbury al pianoforte si avvale di due perfetti compagni di avventure, Max Ridley al basso e Dad Nadeau, costituendo un «temuto» e rispettato tridente d’attacco sulla nuova scena jazzistica newyorkese.
Negli ultimi anni nei circuiti della Grande Mela sta emergendo il desiderio di riappropriarsi di una tradizione musicale che sappia guardare al futuro e diventare nuovamente il volano del jazz a livello mondiale, operando tra avanguardia, sperimentalismo, assunzione dei i nuovi dettami della BAM e fenomeni di inculturazione, al fine di descrive con le parole e le note lo spirito de nostri tempi. Operazione alquanto riuscita a Justin Salisbury, il quale attraverso la stesura di dieci componimenti, arrangiati per piano trio, è riuscito a marcare il territorio come un perfetto «capobranco» ed a tracciare le regole d’ingaggio di un format pianistico che si sostanzia sulla scorta di un’indagine ritmico-armonica in continuo divenire, un senso dell’orientamento melodico non comune ed una sorgiva tendenza all’improvvisazione dilatata e divergente. Justin, ma anche i suoi «degni compari», hanno assorbito, per ovvi motivi anagrafici, la cultura frammentaria e parcellizzata del terzo millennio, ma riescono con estrema duttilità a stabilizzarla sulla base della conoscenza del vernacolo jazzistico tradizione che non li distoglie mai dall’avere lo sguardo fisso e puntato verso la contemporaneità.
Justin è cresciuto ascoltando i classici dell’American SongBook e pianisti jazz come Bill Evans e Thelonious Monk, due approcci differenti alla materia, tanto che analizzando le varie tracce dell’album si nota subito un gioco di contrasti e di confluenze, ma ben dosate senza mai cadere nel manierismo o nel citazionismo spicciolo. Justin dimostra di essere un dominus assoluto sul pianoforte e di saper guidare tecnicamente ed armonicamente il trio, facendolo convergere sistematicamente al nucleo centrale della sua cellula compositiva, attraverso un lavoro di tensione e rilascio che racconta alla lettera le angosce, le speranze, i tormenti, le perdite, i vantaggi e i paradossi della nostra epoca. Il pianoforte sembra scrivere trasformando le note in versi e in prosa, narrando storie di mondi e di uomini. «Evergreen» è un nome adatto all’album, poiché come già spiegato, Justin parla dell’Oregon, della giovinezza, della natura selvaggia, della montagna. L’Oregon è l’unico stato degli USA dove sono presenti ancora, come nei film western, i cavalli selvaggi (purtroppo sempre di meno), specie in un area chiamata «Kinger Mustangs», ossia il regno dei cavalli selvaggi.
«Go» è un abbrivio muscolare ricco di esuberanza giovanile, dove il drumming introduce il suo cadenzato canto di guerra, piagandosi al passaggio del pianoforte che procede in maniera ostinata ostentando un movimento apicale e deciso che mette in evidenza le finalità del trio. L’Oregon è lontano, mentre New York, con i suoi ritmi e le sue quotidiane paturnie e nevrosi, prende il sopravvento sul l’intreccio strumentale e sull’umore dei tre ardimentosi sodali. A seguire «Let Life=True» un’ equazione che apre scenari mentali e filosofici evidenziando la componente più razionale del pianista dell’Oregon, il quale corre sulla tastiera come un mustang, inseguito da una mandria di pensieri gravidi di tensione drammatica e desiderio di libertà, ma soprattutto assaltato da una retroguardia ritmica che non gli da tregua. «Ciro», ispirato dalla serie televisiva italiana «Gomorra», possiede un gancio melodico a presa rapida imperniato su un jazz-waltz estremamente cantabile, dove il pianoforte sembra srotolarsi attraverso una proiezione verticale in cui la melodia di dirada come nebbia fino a raggiungere una sorta di fade out finale.
Aurelius» è dedicato all’imperatore-filosofo Marco Aurelio, il quale diceva: «Soffermati sulla bellezza della vita. Guarda le stelle, e vediti correre con loro», che è in parte l’essenza della musica di qualsiasi genere e di qualunque tipo. Salisbury sembra contemplare l’antico adagio con un melodia avvolgente, velatamente evansiana, che cresce in divenire come la scia luminosa di una cometa. «Sangha» è una ballata peripatetica che procede con passo felpato scavando in profondità per poi riemergere lentamente, mentre il pianoforte disegna un movimento arcuato ed avvolgente. «Interlude» appare come un limbo in una terra di confine, un passaggio su cui il pianoforte dissemina piccole tracce come i sassolini di Pollicino, propedeutici al ritorno a casa, mentre il basso ad arco traccia un’atmosfera di mistero e di tensione, trascinando il fruitore in una dimensione onirica. «No Face» è la rappresentazione idiomatica della pandemia, che aveva reso i volti degli umani quasi tutti uguali, impauriti e coperti dalle mascherine. L’impianto melodico sembra guardare in varie direzione, quasi alla ricerca di un centro di gravità permanente: tra smarrimento e meraviglia, la retroguardia ritmica puntella il groove in maniera obliqua e sincopata, come a voler schivare un pericolo.
«Barang Barang» si sostanzia come un componimento dal suono onomatopeico scritto dal pianista durante un soggiorno in Cambogia. Il walking del basso è scorrevole e regala la sensazione di un viaggio su un vecchio convoglio affollatissimo, come accade con frequenza nei paesi asiatici, acquistando velocità in progressione, seguito dal piano che corre agilmente sulle rotaie armoniche, agognando un approdo sicuro, mentre il basso ad arco sviluppa un’atmosfera orientaleggiante. Tutti i progetti sonori nati in tempo di pandemia descrivono momenti di pura resilienza. Durante il Covid, tanti musicisti non sono fuggiti da New York, ma sono rimasti con l’idea «del domani è un altro giorno». Molti di essi dislocati a Brooklyn, nell’incrocio tra «Cornelia» e «Evergreen» a Bushwick, nomi di luoghi che diventano i titoli conclusivi dell’album, proposti in maniera struggente con un basso di luna calante ed un pianoforte introspettivo che dipinge i colori bruniti di una notte velata di malinconia. In conclusione ancora le parole di Marco Aurelio: «Il parere di migliaia uomini non ha alcun valore se nessuno di loro sa niente sull’argomento». Voi, adesso, siete informati. Se amate il piano trio nel senso più letterale del termine, non lasciatevi sfuggire questo disco.