// di Francesco Cataldo Verrina //
C’è un momento in cui l’Arena Santa Giuliana di Perugia, «la Scala del jazz mondiale», si riempie di figure e sagome aliene alla cultura sonora jazzistica, per diventare un tempio del rock, dove gli officianti ed i devoti hanno ben altre caratteristiche, perfino fisico-somatiche, raramente affini. Nel nostalgismo tipico di una certa generazione permane ancora l’idea antagonista di un rock legato al jazz dal medesimo spirito combattivo e contestatario, ma è tutto qui: nel mood e nell’atteggiamento di una generazione, in massima parte oggi alle prese con problemi di sovrappeso e di incontinenza, anche mediatica (abist iniuria verbis). Con l’arrivo di Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura e massima espressione del «rock scritto», prima che suonato e cantato, dove la componente lirico-testuale assume un’importanza superiore al sistema ritmico-armonico, siamo nel campo opposto a quella che potrebbe essere una dimensione jazzistica ideale. Non v’è alcun intento polemico in ciò che scrivo, pur essendo un storico e uno studioso del jazz moderno, faccio parte anch’io di una certa congrega «free love and peace», la quale ha atteso a lungo una «risposta nel vento» che non è mai arrivata; soprattutto non è in discussione la portata storica di Bob Dylan, né tanto meno la sua partecipazione a Umbria Jazz, che rimane una delle manifestazioni musicali più importanti del mondo ed una vetrina di primo piano per il jazz che conta in tutte le sue molteplici espressioni. Per dirla in soldoni, anche per me che sono solo perugino di adozione, la presenza di Dylan nella nostra città è (e sarà) motivo di vanto e di orgoglio. In particolare consiglio a qualsiasi «disperato erotico stomp» di tenere a bada le polemiche sfoderando la solita tiritera che Umbria Jazz non è più solo jazz. Tutte fandonie per partito preso. Basta guardare il programma: c’è più jazz a UJ che in tutte le altre manifestazioni italiane messe insieme.
In taluni casi, bisogna invocare la teoria della relatività. Anni addietro, in America, ebbi modo di vedere un concerto di Bob Dylan. Due elementi mi colpirono essenzialmente: in primis non c’era per nulla l’aria dell’evento, la location era alquanto ristretta e gli Americani presenti mi sembravano più interessati alla recente attività canora, di tipo crooner, del cantautore del Minnesota, fatta di cover e rifacimenti di evergreen, che non la sua autografa produzione di battaglia, specchio di un momento storico in cui Dylan lanciava invettive e scomuniche ai potenti ed ai governanti del pianeta Terra. In quell’occasione acquistai due album in vinile, «Fallen Angels» e «Shadow In The Night» (che vedete nelle foto in basso), i quali descrivono alcuni degli ultimi passaggi discografici del cantastorie; in seconda istanza, nonostante il carattere sempre spigoloso, il suo approccio con il pubblico, negli USA, era alquanto diretto e colloquiale, e nessuno fra gli astanti mostrava timore riverenziale nei confronto di cotanto mito della musica del Novecento: la frequentazione reiterata ed il frequente contatto abbassa le difese immunitarie del divismo e dell’isterismo di massa, nonché le barriere architettoniche tra pubblico ed artisti. Avendo visto alcuni concerti jazz nella stesso luogo, mi resi conto che per vedere Dylan avevo pagato quasi il doppio. Così, il costo di un biglietto ti ricorda che, l’oggi ottantaduenne Dylan, è sempre Bob Dylan, colui che ha «bussato alle porte del paradiso» e che quella storia e quel curriculum si pagano. In ogni caso, la mia ricordo americano, riguarda una serata piacevole con un paio di bis ed un uditorio «a conduzione familiare», più in cerca di evasione che di messaggi o di conferme. Eppure, quando un personaggio come Dylan, che si prende il lusso di non ritirare il premio Nobel assegnatogli, perché ha un impegno, nonostante questo atteggiamento apparentemente snob, ti fa capire non che sia una persona scortese, insensibile, incolta ed eccentrica, ma semplicemente distante dalla visione eurocentrica del divismo ostentato perfino sulle passerelle dei festival cinematografici e musical-canori o di un presenzialismo da parvenu fatto di premi, medaglie, coppe e riconoscimenti che appartengono agli uomini e non alle divinità. In quel mese di dicembre Dylan aveva disertato la cerimonia del Nobel creando non pochi problemi e dicendo: «le canzoni non si leggono, si cantano». Al suo posto, l’amica Patti Smith, la quale aveva memorabilmente cantato «A Hard Rain’s A-Gonna Fall» in onore dell’allora settaseienne «ragazzo di Duluth» incluso tra i giganti della letteratura. Essendo Bob Dylan un uomo colto ed estremamente inteligente, si presentò in aprile a ritirare diploma e medaglie ed un assegno di otto milioni di corone svedesi (pari a 820 mila euro) durante una cerimonia strettamente privata in un hotel di Stoccolma. «Appena ricevuta notizia del premio, mi sono chiesto in che modo le mie canzoni riguardassero la letteratura. Ho voluto riflettere e trovarne il nesso», così esordì Dylan nel discorso danese citando Buddy Holly, che vide in concerto poco prima della morte quando l’ex Bobby Zimmermann era ancora teenager: «Mi guardò dritto negli occhi e mi trasmise qualcosa. Non sapevo cosa. E mi diede i brividi». Sono quegli stessi brividi che Dylan trasmette apiù di una generazione quano egli sale sul palco.
Al netto di ogni congettura, Dylan è considerato uno dei massimi poeti del Novecento ed annoverato tra i dieci musicisti pop-rock più importanti di ogni epoca, i quali, al di là del successo discografico, hanno determinato dei cambiamenti epocali nell’ambito della musica contemporanea di tipo ritmico Robert Allen Zimmerman, conosciuto come Bob Dylan, è già nei libri di storia, ogni tanto esce, scende sulla terra ferma e si concede al popolo degli uomini: egli è pienamente consapevole che in Europa, come in Italia, bisogna ostentare taluni atteggiamenti e rispolverare la tempra ed carisma di un tempo e, perché no, pure qualche capriccio: il vecchio Bob non vuol vedere telefonini accesi durante i suoi concerti europei (ricordate Keith Jarrett ad Umbria Jazz, qualche anno fa?). E che sarà mai, occorrerebbe ringraziarlo! Per i tanti schiavi del touch screan, affetti dalla «Sindrome di Steve Jobs» o dal «Morbo del Gallo Cedrone», saranno un paio d’ore di libera uscita dal virtuale. In USA è diverso, magari Dylan che suona a quindici miglia da casa, lo puoi incontrare anche al pub, ma da noi arriva il divo non l’uomo. Se paghi per vedere una star, se hai delle aspettative per quello che consideri il concerto della tua vita o un happening taumaturgico e catartico, non puoi pensare al cantastorie con la chitarra che ti culla con una manciata di cover anni Cinquanta, ti sorride e rilascia autografi come Gigi D’Alessio. L’atteggiamento quasi paritetico del pubblico americano con molti divi della musica, dal rock al jazz, stride se paragonato all’atteggiamento da sudditi che, in genere, sostenitori ed appassionati assumono nel vecchio continente, così come il timore riverenziale degli organi di stampa e di tutto un indotto fatto di vecchi e nuovi affiliati. Il divo non può e non deve essere alla portata di tutti, sebbene Dylan sia uno dei pochi che non ha mai ostentato quegli stupidi atteggiamenti da rock-star, ossia quelle divinità eccentriche che si trasformano in rock-start e partono a tutto naso ed a tutta velocità sulle piste bianche, tra lussi frenati, frequentazioni modaiole ed eccessi sessuali. Bob Dylan a parte le ripetute conversioni dall’acustico all’elettrico o da una religione monoteista all’altra, è sempre stato un uomo tranquillo, un padre di famiglia. In tutta verità, non è proprio un «simpaticone» accomodante, ma tutto ciò non è compreso nel prezzo del biglietto. Per non essere banali, diciamo che la fama non rende alcun artista migliore di ciò che era al momento della sua iscrizione nelle liste anagrafiche, casomai fama, soldi e successo possono solo renderlo peggiore.
Bob Dylan è stato un musicista di successo, oggi vive soprattutto sulla rendita del suo mito (è giusto che sia così), capace di muovere folle messianiche, anche se non si è mai consumato in estenuanti e logoranti attività concertistiche. Attualmente si è propensi a dimenticare, ma nel corso dei decenni il suo rapporto con la stampa, specie americana ed euro-antagonista, non è stato proprio idilliaco. Come accennavo, il passaggio dall’essere l’epitome del folk-singer acustico, del cantastorie, del menestrello e dell’erede di Woody Guthrie, ad una dimensione da rocker elettrico, fu uno scossone, specie per un certo ambiente fatto di scrittori, intellettuali ed artisti a vario titolo, quasi come la svolta elettrica di Miles Davis per il mondo del jazz. In fondo per Dylan si trattò solo di cambiare strumentazioni: la rabbia e la corrosività dei sui testi rimasero intatti, ma la stampa ed una certa intellighenzia non glielo perdonarono. Furono anni di polemiche soprattutto per quell’enclave di intellettuali snob ed hipster post-beat-geneartion che si era coagulato intorno a personaggi come Ramblin’ Jack Elliott, il quale aveva introdotto il giovane Bob nel giro di Woody Guthrie. Buona parte dell’abilità di Dylan nella stesura dei testi, nacque dal confronto serrato con il vecchio mentore, che non impartiva lezioni, ma consigliava ai suo allievi di «rubare» osservando ciò che lui faceva. La figura di Woody Guthrie è stata sicuramente importante per la formazione del Dylan «storyteller del rock». Maestro e fonte di ispirazione, Guthrie ha lasciato un’impronta indelebile nella poetica e nella narrativa canora del musicista del Minnesota, soprattutto nelle canzoni più prossime all’impegno sociale e politico. Ad esempio, le motivazioni del Nobel a Bob Dylan sono le stesse per cui egli ha trovato ispirazione in Guthrie: «per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana». Ovviamente le polemiche fra l’eclettico cantastorie ed i laudatores temporis acti, insensibili ai mutamenti dell’artista, non finirono con l’adesione al rock elettrico.
Il 15 gennaio del 1976 la Columbia diede alle stampe «Desire» uno dei dischi più struggenti, passionali e profondi del cantautore americano. Mr. Robert Allen Zimmerman lasciava l’impegno civile, solo apparentemente, per ripiegare sui sentimenti più intimi: in «Sara» parla della donna amata, della sua compagna, ma non mancato i riferimenti ai fatti di cronaca e alla vita quotidiana come in «One More Cup Of Coffee». L’impegno pubblico è rimarcato dal singolo «Hurricane» che pose all’attenzione la triste vicenda del pugile afro-americano Rubin «Hurricane» Carter condannato ingiustamente per un triplice omicidio avvenuto nel New Jersey a seguito di una sparatoria, il 17 giugno 1966 presso il LaFayette Bar. L’album contiene anche «Romance In Durango» (ripresa da Fabrizio De André, come «Avventura a Durango»), il racconto della tragica storia di Maddalena e Ramon, fuggiaschi per amore, inseguiti ed uccisi dai sicari del di lei marito. L’origine di molte critiche fu «Joy» la canzone più estesa dell’album, nonché la più controbattuta, poiché racconta la vita non proprio esemplare di un gangster, Joseph «Crazy Joe» Gallo, vissuto dal 1929 al 1972. Dylan, in preda ai demoni letterari, ne romanzò le gesta, descrivendolo come un fuorilegge con una morale, capace di distinguere il bene dal male, sulla falsariga di Pretty Boy Floyd di Woody Guthrie. Fatto sta che fra polemiche e dibattiti sull’ennesimo presunto «tradimento» dylaniano, l’album rimase al primo posto della classifica di Billboard 200 per cinque settimane, in Australia ed in Olanda per tre settimane, raggiungendo il terzo posto nella classifica inglese, in Austria e Nuova Zelanda e la quarta posizione in Norvegia, nonché approdando i primi posti in Germania, Italia e Francia. «Desire», a tutt’oggi, rappresenta uno dei maggiori successi in termini di vendite, con il quale Dylan vinse due dischi di platino. L’onda d’urto delle polemiche si scatenò nuovamente come una grandinata, quando nel 197’9 il cantautore, ebreo di origine, annunciò la conversione al Cristianesimo, documentando il tutto con un album permeato da potenti autodafé religiosi e intitolato «Slow Train Coming», a cui fece seguito «Saved», ossia «salvato», titolo che la dice lunga. Dylan veniva dal successo mondiale di «Desire», la cui scia positiva era stata già sfruttata dal live «Bob Dylan At Budokan», il risultato fu che le classifiche di vendita non risposero positivamente alla sua iperbole religiosa, che in seguito avrebbe rimesso in discussione. I tempi, come cantava proprio lui, stavano cambiando , «Times Are Changin’»: «perché chi perde ora, sarà più tardi a vincere, perché i tempi stanno cambiando». Bob Dylan, a partire dagli anni Ottanta, divenne un oggetto di culto, una divinità sacrale e dovette accontentarsi di entrare nei libri di storia: roba non da poco, come vincere anche un premio Nobel.
Chi verrà, dunque, a vedere l’ottuagenario Bob Dylan all’Arena Santa Giuliana di Perugia? Di certo non il popolo del jazz , ma vedremo torme di ex-ragazzi terribili degli anni Sessanta e Settanta, avvocati brizzolati in libera uscita e senza cravatta, ex-figli dei fiori o ex-antagonisti che mettevano «fiori nei vostri cannoni», nostalgici e collezionisti di concerti (di questa categoria parleremo in un’altra occasione). E i giovani? Forse i figli del Web 4.0 potrebbero aver sentito parlare del cantautore di Duluth dai loro genitori, o trovato in casa qualche vecchio vinile del nonno. Il mondo non è cambiato molto, (guerre, fame, diaspore, immigrazioni di massa, carestie, dittature, violenza sulle donne, etc.) ed alcune problematiche trattate dal Bob antagonista sarebbero ancora attuali, ma Dylan fa parte di quella generazione «fallimentare», ovvio non per colpa sua, che voleva cambiare il mondo con le canzoni e non c’è riuscita: molti sono entrati in banca ( Cfr. «Compagno di Scuola», A.Venditti) e sono diventati paladini del sistema, sfruttandone appieno i vantaggi, soprattutto la maggior parte sono invecchiati come Dylan e non «morti prima di diventare vecchi» come recitavano gli Who in «My Generation». Il mio consiglio: se sarete al Santa Giuliana di Perugia al concerto di Bob Dylan, consideratelo come un’apparizione a sorpresa, un regalo della provvida Umbria Jazz: tenendo conto del dato anagrafico potrebbero non esserci altri avvistamenti di questo tipo. Non aspettatevi un guerriero o un tribuno della plebe, fate come gli Americani, consideratelo solo un attempato crooner con la voce roca e un marcato accento sudista, che finisce per somigliare inevitabilmente più a Tom Waits che a Tony Bennett. Soprattutto non vedrete nessuno camminare sull’acqua, anche se qualcuno proverà a «bussare alle porte del paradiso» (Knockin’ on Heaven’s Door).