// di Irma Sanders //
Un approfondito saggio di quasi 400 pagine che analizza uno dei periodi più complessi della storia del jazz moderno, dove il desiderio di «libertà» espressiva si lega alla voglia di cambiamento e di emancipazione degli africani-americani ed il concetto non sempre contemplato di «anarchia» della forma espressiva rimane incompiuto, nell’impossibilità di un’improvvisazione totale e non prestabilita. La rivoluzione sociale e le lotte dei neri diventano il nutrimento di un’insoddisfazione generalizzata da parte dei musicisti che si oppongono alle rigide strutture melodiche-armoniche tradizionali, mentre la vera rivoluzione politica diventa il sovvertimento del sistema accordale. Come sempre, nello stile del Verrina, i «dischi» diventano i protagonisti di una storia nella storia, come tante pietre miliari disseminate sulla lunga strada di un racconto su cui s’intrecciano fatti e personaggi, protagonisti, gregari, comparse e comprimari.
Una volta Ornette Coleman disse: «La mia musica inizia dove quella di Charlie Parker finisce». Dichiarazione che potrebbe apparire alquanto pretestuosa, ma che nasconde una verità apodittica. Il bop free-form e le avanguardie a volo libero consentirono al jazz una maggiore espressione ed una visione allargata dell’universo musicale di riferimento che, in quello scorcio di anni Sessanta, iniziava a legarsi con sonorità etniche, problematiche razziali, terzomondiste, africanismo multi-ritmico, spiritualismo, elementi delle culture altre, impegno civile e politico, strumenti antichi ed insoliti creando una sorta di melting-pot sonoro non sempre di facile comprensione. Soprattutto la geniale lezione parkeriana venne in qualche modo interrotta dall’arrivo sulla scena di una generazione di musicisti attratti da un linguaggio sonoro ricco di connotazioni extra-musicali, che si riallacciavano ad una spiritualità imbevuta nell’intera esperienza dei discendenti degli schiavi africani nelle Americhe.
Se è vero che il free jazz possa essere impegnativo dal punto di vista sonoro e intellettuale, per contro può essere stimolante ed è possibile goderne anziché subirlo. È tutta una questione di acclimatazione e di ascolto ripetuto, soprattutto evitando i pregiudizi. La musica di Ornette Coleman, ad esempio, ritenuta incomprensibile nel 1959, se ascoltata oggi sembra tutt’altro che impegnativa, persino un po’ addomesticata. Forse perché, grazie all’esposizione ipermediale, le nostre orecchie si sono adattate ad alcuni linguaggi talvolta più estremi. Oggigiorno la musica atonale è onnipresente dovunque, essendo stata usata con buoni risultati, perfino, per creare suspense e tensione nei film. Tuttavia, il free jazz non tendeva ad ottenere un senso dell’ordine e della logica; per non parlare della sorprendente bellezza da cui si viene sopraffatti, una volta che ci si è abituati al flusso estatico del costrutto ornettiano. «Non si è trattato di un circolo vizioso musicale», sostiene Surgal. «È stata una simbiosi. C’è molta interazione ed empatia. Si tratta di musicisti che si ascoltano a vicenda». In fondo, è anche una questione di equilibrio tra libertà e disciplina. «L’improvvisazione è informata dalla passione e condizionata dalla conoscenza. Per lo stesso motivo per cui i musicisti devono prepararsi, gli ascoltatori devono fare altrettanto», sosteneva Cecil Taylor. Albert Ayler eseguiva la sua musica in uno stato di estasi spirituale. Al pari di John Coltrane e Pharoah Sanders usava la meditazione per entrare in contatto con un’entità superiore o trascendente. In genere il sassofonista componeva un frammento di melodia, magari tratto da una canzone popolare o da uno spiritual, per poi trasformarlo in una scultura quasi umana, con lunghe e crude linee di sax che sembravano avocare a sé tutto il dolore dell’umanità.
Steve Lacy in un’intervista radiofonica disse: «Da una parte c’erano tutti i musicisti accademici, gli hard boppers, quelli della Prestige e della Blue Note che facevano cose con una leggera tendenza progressista. Ma quando entrò in scena Ornette Coleman, allora fu la fine delle teorie (…) Ricordo che in quei giorni disse, cercando con cura le parole: ciò che abbiamo è una certa quantità di spazio e ci si può mettere dentro tutto quel che si vuole. Questa fu la grande rivelazione». Il free jazz offrì un altro mezzo di auto-espressione ai jazzisti che cercavano qualcosa che andasse oltre il bebop. Di conseguenza, le loro esplorazioni rivelarono un universo alternativo fino ad allora impensato, i cui suoni inizialmente sembravano astratti, alieni ed ultraterreni ma, che in realtà, erano una sincera espressione della condizione umana, a cui si aggiunse il chiaro riferimento al contesto politico e sociale dell’epoca.
Come l’arte contemporanea ed astratta, il free jazz è stato spesso vilipeso dai paladini del mainstream, di solito da coloro che non si sono mai degnati di ascoltarlo con attenzione considerandolo pretenzioso e picaresco nel migliore dei casi, o una specie di obbrobrio nel peggiore. Ci sono altri cultori del jazz, meno ottusi, che percepiscono il free jazz o la musica d’avanguardia come un male necessario e lo ascoltano obtorto collo, mentre per gli irriducibili diventa uno stile di vita. Al netto di qualsiasi congettura, la musica jazz non fu più la stessa. Free Jazz o Avanguardia? Qualunque sia la terminologia utilizzata o la definizione semantico-linguistica di riferimento, questo saggio tenta di far luce sui musicisti e i dischi che sono stati parte integrante, determinante o accessoria dello sviluppo di quel movimento che, nell’accezione più larga del termine, viene chiamato free jazz, comprensivo anche di quegli innovatori che, attraverso la loro ricerca o un’idea di cambiamento, sia pure in nuce, ne abbiano favorito la nascita.