// di Francesco Cataldo Verrina //
La narrativa dell’animo umano e la filosofia delle suggestioni non sono contemplate nei testi accademici, ma il jazz contemporaneo nella sua proteiforme iperbole di input multimediali riesce a raccontare di mondi e cose, di gesti e azioni umane musicando le suggestioni come se fossero un intreccio cinematografico. Poche altre volte un disco è stato meritevole del proprio titolo, quanto «Human Plots – Six Extraordinary Acts And A City», terza fatica del bassista-compositore Luca Lo Bianco, edito dalla GleAM Records, il cui ufficio stampa chiarisce immediatamente l’arcano: «Human Plots nasce dall’idea di raccontare la forza di un gesto attraverso la musica. Azioni che nella impellente necessità di essere compiute, nella loro urgenza, oltre che nella loro potenza, trovano la loro compiutezza. Storie che si svolgono in contesti diversi, in luoghi lontani tra loro, in periodi differenti ma unite da un bisogno interiore insopprimibile. Trame umane lontane da ogni forma di retorica sull’eroismo, gesti compiuti da uomini e donne che ci restituiscono un concetto di umanità ancora nobile».
Si potrebbe pensare ad un film, fatto di tanti brevi soggetti, che si dipanano e s’intrecciano seguendo il fil rouge di un plot narrativo basato su una sceneggiatura di note che lentamente si addensano e danno vita ad un costrutto concettuale coerente. Se è vero, come diceva Duke Ellington, che «la musica sia l’arte invisibile», l’ascoltatore dovrebbe cercare qualcosa di palpabile che sia simmetricamente in linea con la narrativa dell’animo umano e la filosofia delle suggestioni. È pur vero che il bassista-compositore Luca Lo Bianco indica una strada, dunque sta al fruitore costruire intorno ai suoni elaborati dalla band immagini o situazioni immaginifiche. In tal caso, però, la forza espressiva della musica è tale e tanta che l’ascoltatore riesce quasi a percepire tutto ciò che permea gli assunti basilari dell’autore e la costruzione formale fornita dal suo line-up: Achille Succi alto sax, clarinetto e clarinetto basso, Samuel Leipold chitarra e Clemens Kuratle batteria.
Si ha l’impressione di ascoltare la colonna sonora non di un film qualsiasi, ma del film della vita, il tema principale di esistenze molteplici. L’intensità esecutiva è coinvolgente e dalle pieghe dell’album emergono storie e personaggi come Abdel Kader Haidara, il bibliotecario maliano che, con l’aiuto di parenti, archivisti e guide turistiche, salvò trecentocinquantamila preziosi manoscritti della biblioteca di Timbuktu. «The Librarian Of Timbuktu», introdotto da una improvvisazione del leader, è un tema scivoloso ed abrasivo modalizzato su un concept fratturato dalle sonorità vagamente esotiche, che richiamano il ritmo Adowa del Ghana, su cui chitarra e sax, come attori, interpretano situazioni di mistero, di pericolo, di fuga. «The Road Builder», mette in cartellone John Metcalf, l’avventuroso costruttore non vedente, ma visionario, che realizzò quasi trecento chilometri di strade nell’Inghilterra del XVIII secolo. Dopo una lunga introduzione, la melodia prende il sopravvento, mentre la retroguardia costruisce progressivamente un groove «capzioso» che intrappola il ritmo e consente al basso di sviluppare una spirale concentrica e labirintica che rimanda idealmente a un dedalo di strade che s’intrecciano. «The Choice» è la storia di Keiko Fukuda, la judoka che, sfidando la tradizione, divenne l’unico 10° Dan donna della storia del Judo. La struttura sonora del brano possiede la forza crescente e perforante del combattimento. La progressione fusion, l’improvvisazione in verticale del sax e l’assolo di basso sembrano descrivere i movimenti di una danza simile ad una lotta; l’idea di giocare su un jazz-rock archetipale rimanda immediatamente all’immagine di un ring. Con «This Heavy Handbag» entra in scena Danuta Danielsson, la donna immortalata da un un famoso scatto fotografico mentre scaglia la sua borsa contro un manifestante neonazista. Il line-up opta per la tecnica del contrasto e del capovolgimento emotivo, contrapponendo alla veemenza del gesto una ballata brunita dall’incedere flessuoso e dal ritmo spazzolato, mentre un coacervo di emozioni affiora in superficie.
«Sarajevo Taxi Driver» celebra Miomir Mile Plakalovic, il tassista che per mille e quattrocentoquaranta giorni aiutò le persone ferite da cecchini e granate sulle strade di una Sarajevo in fiamme. La band si muove sinergicamente su un tema in 5/4 che cammina sotto la linea guida di un basso pulsante e metronomico che sembra tratteggiare l’azione del tassista intento a sfidare i pericoli, mentre il cambio di passo in 4/4, alimentano una sorta di caos armonico, diventa la perfetta simulazione di una città in guerra. «323» è uno dei momenti più suggestivi dell’album, implementato da un perforante dialogo fra clarinetto basso e chitarra con la reiterazione di sequenze intervallari, mentre l’accavallarsi turbinoso dei quattro sodali all’unisono crea intorno al costrutto sonoro un’atmosfera rabbiosa, distorta e sofferta quasi a volo libero, ispirata dalle tragiche vicende dei musicisti turchi del Grup Yorum, i quali, per affermare il diritto essenziale a difendere la propria libertà, iniziarono uno sciopero della fame che li condusse alla morte dopo 323 giorni. L’ultima è l’unica traccia non composta da Lo Bianco. «Silent Eyes» di Paul Simon viene riproposta con un tocco quasi sospeso e surreale, dominato dalla chitarra e dal ritmo spazzolato della batteria. Ambientazione ideale per una Gerusalemme schiava dell’incomunicabilità, vittima dell’immobilismo anche di fronte allo sguardo di Dio, come suggerisce lo stesso Paul Simon nei suoi versi. Il viaggio proposto da «Human Plots – Six Extraordinary Acts And A City» si conclude così, mentre la narrativa dell’animo umano e la filosofia delle suggestioni sono pienamente contemplate, ma soprattutto il trasferimento della sensazione è perfettamente riuscito.