// di Francesco Cataldo Verrina //
Dischi di tale fattura andrebbero santificati nell’ambito della storia, poiché contengono la testi e l’antitesi del jazz moderno al contempo. Il jazz inteso come fertile terreno di coltura in cui innestare quelle ibridazioni e quei cambiamenti di umore che ne hanno favorito l’evoluzione attraverso un dinamismo inarrestabile. Don Pullen è stato un artista multitasking, interessato solo agli sviluppi della sua idea di musica ed abile a non farsi recintare o intrappolare in un ambito specifico, soprattutto alieno rispetto ai dettami delle mode passeggere.
Non a caso la sua opera è stato assai sottovalutata da un certo tipo di letteratura jazz, incapace di irregimentare o etichettare quella sua innata libertà espressiva che non subiva mai le catene della formalità o il manierismo stilistico, ma piuttosto cercava di rimodulare il pianismo attraverso una rilettura incontrollata e trasversale. «Milano Strut» nasce dall’incontro di Don Pullen, pianoforte ed organo e Don Moye batteria, percussioni, congas e campane. Formalmente solo due strumenti che a volte, quasi per magia, sprigionano l’energia e la complessità di un intera orchestra. Talvolta è una semplice suggestione, ma spesso nel formato duo accadono più cose che in qualsiasi altra dimensione. Mingus, che non amava il free,ad esempio, aveva trovato in Pullen l’incastro perfetto per modernizzare le sue architetture sonore.
Il legame di Don Pullen con l’Italia fu molto produttivo. Già a partire dal 1975 Giacomo Pellicciotti della Black Saints era stato colpito dal genio di pianista e dai suoi innovativi contributi al jazz, fornendogli una piattaforma espressiva legata ad poetica individuale che sarebbe finalmente stata svelata ed evidenziata proprio dalla seconda metà degli anni ’70 in poi, quando Pullen, partendo dal blues, dal gospel e dalla church music, trasfigurava il suo elaborato sonoro trascinandolo verso un inedito altrove. «Milano Strut», dedicato alla città che l’aveva adottato, si basa su quattro lunghe tracce che vanno dal free jazz debordante alla Cecil Taylor ad un’accattivante fusion elettrica: la title-track è un gioiello di funk-jazz giocato sulla costante interazione tra organo Hammond e percussioni.
Nonostante le labirintiche e reiterate conversazioni piano-batteria, assolutamente free-form, Pullen non ricalca l’ascetismo estetico del percussionismo pianistico di Cecil Taylor, soprattutto non rinuncia mai ad un lirismo quasi romantico e alla cantabilità delle melodie. Il drumming di Famoudou Don Moye, conosciuto come membro dell’Art Ensemble of Chicago, è superbo ed incontenibile, ma con il suo modo di improvvisare, Pullen sembra capace di intercettare una quantità illimitata di stimoli percussivi giocati su un movimento a ruota libera, a volte surreale. «Conversation» e «Communication» della durata di dieci minuti ciascuno sono, forse, tra le più riuscite performance di Pullen, declinate attraverso una furia espositiva di mingusina memoria, ma con un’inventiva che si arricchisce progressivamente di dettagli e sfumature non convenzionali. «Curve Eleven For Giuseppi» è un sentito ed emozionante omaggio a Giuseppi Logan. Registrato nel dicembre del 1978 al Ricordi Studio di Milano e pubblicato dalla Black Saints, «Milano Strut» è piccolo capolavoro sfuggito al controllo dei radar.