di Irma Sander
«Blue Note Quotacento+» è l’epica storia della Blue Note narrata attraverso i suoi dischi più significativi. Più di 130 album epocali, analizzati e passati al setaccio, in cui s’intrecciano le vicissitudini di uomini ed artisti che rappresentano i cardini su cui poggia l’intera vicenda storica dell’etichetta. Il libro si legge come un racconto fatto di tanti capitoli connessi ad un un unico plot narrativo, ma soprattutto gli album scandagliati in «Blue Note Quotacento+» rappresentano un fetta cospicua dell’intera storia del jazz moderno.
A supporto vorrei citare le esaustive parole di Mauro Zappaterra: «Nuovo capitolo della saga letteraria jazzistica di Francesco Cataldo Verrina, che dopo avere esplorato decenni di storia del jazz attraverso i musicisti e la loro discografia, e dopo avere approfondito alcuni dei giganti della storia del jazz (Mingus, Davis, Coltrane) stavolta si cimenta in un lavoro teso a raccontare la storia di una delle più importanti e famose etichette discografiche che hanno segnato un’epoca, la Blue Note. Lo fa tramite il collaudatissimo e vincente schema del percorso discografico, mai come in questo caso propedeutico allo scopo: 130 dischi, dal 1952 al 1969, il periodo d’oro del bebop in tutte le sue derivazioni, hard bop, post bop, fino alle avanguardie. Un libro che come al solito va oltre la mera catalogazione, ricco di aneddoti, di cenni storici, di commenti e parti di interviste e mai banale, ma sempre argomentato con la sagacia e la verve disquisitoria dell’autore. Uno strumento oltremodo piacevole per inquadrare il percorso storico musicale della casa discografica, che è l’essenza stessa del jazz, e dei musicisti che per essa hanno inciso».Per dare un’idea della portata del libro, ho voluto scegliere due passi importanti del libro che riguardano due album, tra i meno praticati del catalogo blue Note.
(Freddie Redd Quintet – «Shades of Redd», 1961).
Quando la puntina del giradischi inizia a solcare un disco come «Shades Of Redd» di Freddie Redd ti rendi conto di quanto la narrazione della storia del jazz moderno sia stata parziale e che andrebbe continuamente riscritta, o comunque andrebbero aggiunte delle note a margine. Apparentemente l’album potrebbe essere una via mediana tra il classico archetipo Blue Note ed un prototipo di hard bop di pregevole fattura; in realtà un ascolto più attento rivela particolari che collocano «Shades Of Redd» in un’area tematica che oltrepassa il modulo espressivo tipico del periodo: a parte l’ispirata combinazione del contralto di Jackie McLean e del tenore di Tina Brooks in prima linea.
Il disco fa emergere la feconda abilità compositiva di Redd, non prevedibile e non del tutto omologata allo standard espressivo dell’epoca. Forse più apprezzato per la colonna sonora della commedia e del film «The Connection» registrato nella stessa estate del 1960, Freddie Redd è stato sempre preso sotto gamba da una certa critica o comunque omologato in un calderone di figure rimaste a mezz’aria, eppure «Shades Of Redd» è un album anticipatore, già fuori dal concept tipico della Blue Note anni ’50. Ad onor del vero i cantori ed i divulgatori del jazz moderno, fra il 1958 ed il 1961, furono attratti e distratti da una serie di album epocali e seminali, rispetto ai quali molte opere coeve stentano a reggere il confronto. Ciò ha determinato una delle più evidenti disfunzioni narrative: coloro che avevano l’onere e l’onore di raccontare l’evoluzione del jazz moderno preferirono concentrarsi sulle principali linee di demarcazione, dimenticando tutto quel fermento creativo, non sempre di portata inferiore, che andava sviluppandosi intorno, quasi come un virus contagioso.
In molti preferirono sterilizzare il fenomeno e chiuderlo in una camera asettica in cui analizzare sempre gli stessi nomi ed i medesimi concetti; sicuramente perché propedeutico ad un’analisi critica ed una descrizione giornalistica più agevole in quanto semplificata.
In «Shades Of Redd» non c’è un brano fuori squadro, non c’è zavorra, ma si sostanzia come un geniale costrutto sonoro perfettamente eseguito, dove l’acido, dardeggiante e tagliente alto sax di McLean stempera il sussiego ipercalorico del tenore di Tina Brooks, mentre lo stile ergonomico del piano di Redd, in odor di Bud Powell, non esegue una nota in più o fuori posto aprendo una prateria creativa agli strumenti a fiato. Dal canto loro, gli addetti alla retroguardia, Paul Chambers al basso e Louis Hayes alla batteria, sono imperiosi, muscolari e perfettamente nella parte. Nonostante la bellezza estetica e la ricchezza compositiva ed esecutiva, nonché il tipico suono dello studio di Van Gelder, «Shades of Redd» non è mai stato elevato allo status di disco fondamentale del catalogo Blue Note, pur essendo riconosciuto come parte essenziale dello stesso.
L’opener «The Thespian» dimostra immediatamente quanto Redd fosse proiettato in avanti rispetto al modus operandi del periodo. Lo stesso Wynton Marsalis, che l’ha più volte arrangiato ed eseguito con la LCJO (Lincoln Center Jazz Orchestra), ha sempre sottolineato l’insolita struttura, l’unicità e l’eccezionalità di una delle più seducenti composizioni nell’ambito dell’assortito repertorio Blue Note: drammatica e caratterizzata da una linea di basso ad arco, un cambiamento improvviso a doppio tempo che spinge il quintetto verso una serie di assoli coinvolgenti, tra cui quello di McLean diventa il punto culminante. In realtà trattasi di una ballata non convenzionale il cui tema viene proposto e sviluppato attraverso una progressione che acquista vivacità, brillantezza e movimento man mano che si procede, scardinando quello che era il tipico metro compositivo dei prodotti della ditta Lion-Wolff.
«Blue, Blues, Blues», molto più in linea con il mood del momento, si caratterizza soprattutto per il contrasto tra i due sassofoni. «Shadows» si basa su una scala blues suonata per lo più all’unisono, anche se i cambi risultano alquanto espansi, da qui nasce una struggente ballata, che riporta alla mente il commento sonoro di un film sentimentale, sviluppando un’atmosfera languida con i fiati che tessono una melodia vagamente autunnale e contrappuntistica, sostenuta dall’impeccabile accompagnamento di Redd.
«Swift» ha una melodia semplice con un arrangiamento che favorisce la sezione ritmica, la quale, a sua volta, diventa propedeutica per gli assoli della prima linea. «Melanie», con i fiati armonizzati, ha un suono quasi da piccolo mondo antico che si dirada attraverso un post-bop dal cancept moderno. «Just A Ballad For My Baby» ha un gioco ed un intreccio strumentale di altissimo livello ed un assolo fortemente lirico di Brooks. «Olé» disegnato come un perfetto affresco sonoro di jazz dal passo latino, una danza ispanica impiantata su una melodia a presa rapida, tra calypso e swing, dove Brooks si fa avanti con un memorabile assolo alla John Coltrane. Freddie Redd è un nome che ogni appassionato di jazz moderno dovrebbe conoscere; tra il 1957 ed 1960, il pianista registrò tre album memorabili: «San Francisco Suite» in trio per la Riverside, «The Connection» e «Shades Of Redd» per la Blue Note. Quest’ultimo è forse il punto più alto, il coronamento della sua attività discografica di compositore e band-leader. Davvero un peccato che la sua carriera si sia consumata in una sorta di rassegnata oscurità, segnata solo da ritorni occasionali.
Per la cronaca, «Redd’s Blues», sessione del 1961, rimase nei cassetti della Blue Note fino al 1988. «Shades Of Redd», registrato il 13 agosto 1960 e pubblicato all’inizio di maggio 1961, porta con sé l’ottimismo dell’epoca, ma con lo sguardo rivolto ai suoni più liberi di Trane ed Ornette, pur rimanendo strettamente legato allo swing dell’hard bop. Il lavoro di squadra espresso qui, rivaleggia con qualsiasi quartetto o quintetto dell’epoca, specie fra quelli molto acclamati. Il pianismo di Redd, mai spettacolare, eccessivo o esuberante, risulta invece colto, calibrato, mercuriale ed intelligente, tanto da resistere abbondantemente alla prova ed all’usura del tempo.
(Lee Morgan – «Charisma», 1969).
L’album «The Sidewinder» fu il passaporto per le stelle, un volo interstellare per Lee Morgan, ma con un biglietto di sola andata. Si ha come l’impressione che il trombettista non sia più riuscito a tornare indietro per poi ripartire alla conquista di altre galassie. Abbiamo più volte evidenziato il cruccio di Alfred Lion, ossessionato e frustrato dal non riuscire a realizzare il degno successore di «The Sidewinder» in termini commerciali. Tutto ciò, per alcuni anni, condizionò non poco la vena compositiva di Lee Morgan.
Molti degli album venuti dopo il suo disco più popolare non sono da meno, alcuni sono addirittura superiori, ma non riescono sovente a discostarsi da quell’ordine di idee. In particolare «Charisma» che sembrerebbe provenire dall’altra parte dell’abisso, ad iniziare dalla copertina, la quale non solo potrebbe essere stata (o apparire) fuorviante, non avendo nulla da spartire con la tipica estetica della classica grafica Blue Note. Esistono tanti lavori di pregio inficiati o deviati dall’involucro esterno. In tal senso la storia c’insegna come perfino una copertina possa decidere le sorti di un disco. Siamo nel 1969 ed il giocattolo di Alfred Lion si era rotto da qualche anno.
Il patrimonio della Blue Note Records era stato acquisito, quindi smantellato da nuove forze aziendali ed economiche, sotto gli occhi increduli di migliaia di fans dislocati in tutto il mondo. L’album «Charisma» nella sua policroma cover art indica la proprietà di un investitore della costa Ovest, la Transamerica Corporation di Los Angeles, in sintesi la Division Of Liberty appartenente alla United Artists. Le note di copertina non sono scritte dai soliti critici jazz, quali Leonard Feather o Nat Hentoff, ma da Herbert Wong, DJ presso una stazione radio di San Francisco. Il numero di catalogo «Blue Note 4312» è scritto a caratteri farmaceutici.
L’inserto fotografico interno ritrae un inedito Lee Morgan con occhiali neri da intellettuale, cappello etnico stile Rahsaan Roland Kirk ed un grosso maglione colorato. Un uomo reinventato con l’immagine del jazz bohémien. Un’accurata operazione di reinvenzione dell’outfit finalizzata a conquistare un pubblico variegato al di fuori del ristretto circuito degli aficionados newyorkesi, o più semplicemente un tentativo di avvicinarsi ai gusti dei nuovi sostenitori degli idoli del soul del rock che furoreggiavano in quel momento. Chi si aspettava la solita foto di Francis Wolff o i disegni di Red Miles rimase deluso. L’artefice del concept grafico fu invece Ann Meisel, artista di talento, ma sconosciuta al pubblico del jazz.
Non che ci fosse qualcosa di sbagliato nella commercializzazione di un prodotto così confezionato: i musicisti jazz avevano bisogno di mangiare e competere con l’emergente cultura pop di massa, soprattutto un flusso di entrate significative avrebbe garantito la sopravvivenza della storica etichetta, formalmente rilevata nel 1965 dal nuovo editore sotto un cumulo di debiti. Coloro, però, che agirono d’impulso in relazione alla copertina e quanti perseverano nel farlo, pensando che si trattasse davvero di un nuovo Lee Morgan, sbagliarono allora e continuano a prendere un abbaglio adesso.
Alfed Lion rimase alla Blue Note/Liberty fino al 1967, anno del suo pensionamento, mentre Francis Wolff continuò la sua attività di produttore in seno alla nuova organizzazione per lungo tempo, ma soprattutto il set di «Charisma» era stato registrato nel 1966 al Rudy Van Gelder Studio secondo le tradizionali regole d’ingaggio della vecchia Blue Note.
Si potrebbe dire: è qui che casca l’asino, poiché parliamo di un album concepito nel 1966 e non nel 1969, quella fu solo la data di pubblicazione. Le sonorità e gli umori di «Charisma» sono quelli del classico prodotto Blue Note a base di hard bop/post bop; così come facevano parte del vecchio roster di Lion le maestranze che costituirono il sestetto: insieme a Lee Morgan alla tromba, Jackie McLean al contralto, Hank Mobley al sax tenore, Cedar Walton al piano, Paul Chambers al basso e Billy Higgins alla batteria. Superato l’ostacolo della copertina, ci si accorge che «Charisma» è uno dei più degni follow-up di «The Sidewinder», se non proprio quel sequel tanto agognato da Alfred Lion, di cui il Nostro non potette godere, poiché la sessione venne dapprima congelata e poi catapultata dalla Liberty nel caos del 1969, camuffata da opera finto-free-hippie-psichedelica. La copertina fece tutto il resto.
Eppure, «Charisma» è un disco con le stimmate della Blue Note dalla prima all’ultima nota, con una prima linea stellare, Morgan, Mobley e McLean, che si sfida e si compensa sostenuta da una brillante sezione ritmica costituita da Higgins e Chambers. Il saggio Cedar Walton si carica sulle spalle il peso del costrutto sonoro, lo regge e lo mantiene unito attraverso un fluidificante groove di piano secondo la ricerca della pietra filosofale, ossia trovare un nuovo «The Sidewinder» a tutti i costi. E in questa occasione c’erano quasi riusciti.
La costruzione sonora è diretta ed immediata. Per paradosso, «Charisma» è il classico album bop-bop-rebop da ascoltare sorseggiando un caffè o leggendo un buon libro, armeggiando in cucina o viaggiando sull’autostrada con il tetto dell’auto aperto, per chi può permettersi una convertibile; l’umore salirà alle stelle, e se il viaggio dovesse protrarsi l’operazione potrebbe essere ripetuta più volte, senza che la noia sopraggiunga. «Charisma» descrive bene quell’atmosfera familiare e rilassata presente nei capolavori della Blue Note: l’interplay tra i sodali è perfetto. In special modo la prima linea di ottoni, accompagnata dal piano, sembra essere in uno stato di grazia. Come un rubinetto sempre aperto, i tre fiati riversano fra i solchi idee a getto continuo, disegnando scorci melodici luminosi e vivaci.
Per l’occasione Morgan mise sul tavolo quattro composizioni originali: «Hey Chico» impregnato di funk dal sapore latino, «Somethin’ Cute» e «The Murphy Man» che macinano soul-bop di grana fine e pregiata e «The Double Up» che trasuda di blues sino al midollo. Il pianista Cedar Walton tirò fuori un asso dalla manica sotto le sembianze di una memorabile ballata, «Rainy Night». Duke Pearson, all’epoca produttore aggiunto, mise in tasca al sestetto la swingante «Sweet Honey Bee».
Un album perfetto per un Sixties Dance Party, dove tante avvenenti ragazze di colore, con abiti dal largo girovita e capelli ad alveare, ballano l’hand jive. A titolo di curiosità, Il «jive della mano» era un ballo particolarmente in voga negli anni ’50 e ’60, legato al swing e all’R&B e caratterizzato da un complesso insieme di movimenti e applausi, dove le mani colpivano le varie parti del corpo, accompagnando o imitando gli strumenti a percussione.Metafore a parte, «Charisma» contiene tutti gli additivi sonori, emozionali e chimici che mantengono la musica di Lee Morgan al riparo dall’usura e dalla corrosività del tempo.