/ di Irma Sanders //
In «Coltrane, il Passo del Gigante» non c’è pretesa alcuna di riscrivere la storia, anche perché, specie in ambito jazzistico, non esiste una storia definitiva, ma come sostiene Francesco Cataldo Verrina: «Solo una summa di cronache ambientali e personali, relative ai singoli personaggi, spesso assemblata per convenienza editoriale e basata sulle figure più vistose in termini di fama e di notorietà. Per intenderci, esistono tante piccole storie nella storia che sembra mutare costantemente. Autorevoli ed illustri studiosi apportano continuamente analisi e punti di vista differenti, perfino con finalità di tipo revisionistico. Questo non il solito esercizio di biopic letterario, ma è la storia di Coltrane raccontata attraverso la sua discografia».
John Coltrane stravolse la storia del jazz rivoluzionando la regolarità armonica ed innervando la sua musica di afflati spirituali. «Era un bambino» – ricordava sua cugina – «dispettoso e caustico, ma riflessivo». E così sarebbe rimasto, nel corso di una carriera breve ma compensata da una lunga discografia e da esibizioni memorabili: «dispettoso», visionario ed insofferente verso gli schemi e le etichette, sempre pronto a deviare il flusso delle convenzioni. «Coltrane: il Passo del Gigante» non è la storia del sassofonista jazz più importante di tutti i tempi, non è un’ennesima biografia, o solo una raccolta di curiosità, dichiarazioni e aneddoti, non mancano neppure quelli, ma è essenzialmente la storia della sua discografia.
La figura di Coltrane è ricostruita attraverso i dischi ed il suo difficile ma proficuo rapporto con Miles Davis e Thelonious Monk: il sassofonista di Filadelfia è stato determinante in molte sessioni dove compariva come semplice sideman. Ancora le parole dell’autore arrivano conferma delle nostre impressioni: «Si tenga conto che all’interno dei singoli fenomeni e delle relazioni tra essi ed il fenomeno nella sua globalità esistono una serie di mutevoli varianti: cambiano i linguaggi, gli approcci ed i metodi narrativi, soprattutto si susseguono le generazioni di cultori ed appassionati di jazz, completamente avulsi da quella forma di scrittura paludata e stantia, schematica e basata sul più becero biografismo a discapito dei contenuti discografici».
In merito all’ultima fese della sua carriera, Trane ha accumulato tutta una serie di detrattori, incapaci di comprenderne l’evoluzione, poichè ancorati a duna visione stantia del vernacolo jazz. Forse tute le analisi superficiali che si leggono sul sassofonista di Hamlet, trovano risposta in una lettera che lo stesso Coltrane scrisse a Don DeMichael in riferimento ad un libro che gli aveva prestato: “Se posso, vorrei esprimere la sincera speranza che nel prossimo futuro, un’indagine vigorosa possa aiutare a provocare un’apertura delle orecchie ancora chiuse al jazz progressivo e spirituale, musica creata dall’artista attraverso un pensiero indipendente. Quando questo sarà compiuto, sono certo che i proprietari di tali orecchie riconosceranno facilmente le qualità molto vitali e assai piacevoli che esistono in questa musica. Sento anche che attraverso un tale sforzo onesto, i contributi dei futuri creatori saranno più facilmente riconosciuti, apprezzati e goduti, in particolare dall’ascoltatore che potrebbe altrimenti mancare il bersaglio a causa di inibizioni, mancanza di comprensione, limitate capacità associative o altri motivi“.
La lunga discografia del sassofonista, per l’ascoltatore meno esperto, potrebbe apparire come una sorta di corsa ad ostacoli dove, man mano che si procede nel tragitto, le difficoltà aumentano. Per contro, tutto ciò è inversamente proporzionale al grado di maturità espressiva e compositiva del sassofonista. Per una facile comprensione, tale discografia va spacchettata e suddivisa in almeno cinque differenti periodi, che segnano altrettante tappe del «Trane-pensiero», fissando alcuni precisi punti di ancoraggio in quello che potrebbe essere, diversamente, un mare magnum, nel quale risulterebbe difficile districarsi o trovare un approdo. Per intenderci come sostiene il Verrina, l’intento basilare è quello di parlare di musica e non di pettegolezzi: «Con tutto il rispetto per quanti trovano interessante sapere che Coltrane fosse alto un metro e settantatré e che fosse del segno della Bilancia, o che da bambino venne escluso dal coro della chiesa perché considerato non propriamente intonato».
Quanto affermato trova conforto nelle circostanziate parole di Roberto Ottaviano, sassofonista e compositore, il quale scrive: «Imperversa ancora oggi il «dibattito» sul Coltrane post «A Love Supreme». È un dibattito che riguarda le scelte musicali, estetiche, filosofiche del musicista di Hamlet (mai combinazione fu più profetica). Tanto è stato scritto e filtrato naturalmente, non solo dalle personali conoscenze, ma anche da quelle che sono le valutazioni sulla base di aspettative che ognuno di noi ha più o meno legittimamente in relazione alle tappe ed alla ricerca individuale di ogni artista e che magari lo vorrebbe legato ad un singolo appagante (per noi) album, e/o momento stilistico ed espressivo. Da Ben Ratcliff a John Litweiler, da Bill Cole a Lewis Porter, tonnellate di saggi e analisi sono state scritte sull’uomo, sul musicista e, come giusto che sia, siamo ancora oggi ad indagare, vista la mole così pregnante di lavoro prodotto in pochissimi anni (forse mai nessuno ha rivoluzionato più volte il suo linguaggio ed il linguaggio di un piccolo gruppo nel Jazz come ha fatto lui nel giro di un lustro o poco più). Io ho una mia personale opinione quasi totalmente ricavata dallo studio e dall’interpretazione delle sue partiture, e mi rendo conto non sia materiale condivisibile più di tanto con chi ama il Jazz e la musica di Trane, perchè ovviamente utilizza un diverso piano di ascolto».